domenica 16 gennaio 2011

Omaha Beach



15 Gennaio 2016 - Mattino

Stamani mi sono svegliato ed ero in un letto. Un letto vero, con lenzuola pulite, coperte e tutto il resto.
In realtà è poco più di una brandina, ma per me la Kobayashi Maru è la Reggia di Caserta.
Provo a muovermi.
Una fitta sul fianco destro, poco sotto l’ascella, mi blocca il respiro.
Devo avere alcune costole rotte, infatti il dolore è intermittente, tra un respiro e l’altro. Rimango a pancia in su, osservandomi la mano sinistra: il dito medio e il mignolo sono steccati insieme con del nastro isolante nero, mentre il palmo è fasciato da una garza, leggermente arrossata.
La pallottola è entrata e uscita dal palmo senza danneggiare i tendini.
Così ha sentenziato Raj, il capo squadra della Stone Cold Company.
Non è un vero dottore, ma ne ha viste parecchie di ferite, sui campi di battaglia.
E’ indiano, parla un perfetto italiano, educato all’inglese, ma capace di squartarti con la stessa naturalezza con la quale imburrerebbe un toast.
Su quella spiaggia tre giorni fa mi ha salvato la vita.
Stavo cercando di strusciare  via dal canneto, ma la mano mi faceva un male pazzesco, l’avevo avvolta nella sciarpa, ma così non potevo usare l’arco. Avevo tenuto le due frecce per un possibile corpo a corpo, anche se la guardia  mi avrebbe sicuramente sparato prima.
Una raffica di AK 47 tranciò gli steli a venti centimetri dalla mia testa.
Rimasi immobile dove mi trovavo, il piumino si era tirato su, scoprendomi la pancia, rimasta a contatto con la sabbia fradicia e gelata.
Un grido: sa te fut in gura!![1] O qualcosa del genere.
E un’altra breve raffica, stavolta più in basso.
Pensai che lo facesse apposta per stanarmi, voleva beccarmi come in quel vecchio videogioco con le papere, che andavano impallinate appena si alzavano in volo da un canneto.
Trattenni il respiro. Un ruzzolamerde si faceva strada verso il mio naso con la sua pallina tra le zampe posteriori. Mi ritrassi leggermente.
La Beretta mi si piantò nel fianco.
Il tipo si avvicinò di una decina di metri verso le dune e il canneto.
Mi venne in mente Steven Seagal.
Presi la pistola, la lanciai nella pozza marcia a due o tre metri da me e poi mi mossi dalla parte opposta.
La guardia corse verso lo stagno sparando in acqua una raffica che scaricò il caricatore ricurvo.
Adesso l’uomo era a pochi metri da me,  non era come nei film, la mossa alla Seagal non lo aveva depistato, anzi.
Vedevo tra i giunchi uno dei suoi scarponi. Impugnai una delle frecce e mi concentrai sul punto in cui finiva il cuoio e iniziava la stoffa mimetica.
La guardia ricaricò il kalashnikov e fece un altro passo verso di me.
Il domatore di gialli si stava avvicinando a sua volta, dopo aver demolito l’antenna della seconda pagoda.
Ero stranamente calmo, l’imminenza della morte cancellava ogni paura o tentennamento, chissà forse ero in botta di adrenalina, chissà.
Sentivo i loro respiri rochi.
Poi un altro rumore, in lontananza.
All’inizio pensai ad un insetto.
Alzai leggermente la testa e vidi la punta del fucile farsi strada tra le canne verdi.
Trattenni il fiato e migliorai la presa sull’asta della freccia, a ridosso della punta.
Il ronzio si fece più vicino: era intermezzato da dei tonfi ritmici.
Il domatore urlò qualcosa e la guardia si fermò, incerta.
Un motore.
Di una barca.
Ai tempi della Gialla.
I miei due assalitori corsero a ripararsi dietro le pagode, legarono il giallo all’anello di una base per ombrelloni in cemento e attesero.
Se erano quelli della Stone Cold, dovevano essere su un gommone e se quei due gli sparavano con gli AK addio rendez vous.
Recuperai l’arco, liberai la mano dalla sciarpa zuppa di sangue e incoccai la freccia. Mi misi in ginocchio, sperando che una raffica non mi scantucciasse la testa, che spuntava sopra la vegetazione dell’acquitrino. Tesi l’arco ma sentii come un ferro rovente che dalla mano, risalendo lentamente tutto il braccio sinistro, mi entrava dentro al torace. Presi un respiro profondo e riprovai: non riuscivo a tenere la corda con l’indice e il medio. Il rumore del gommone si avvicinava ancora di più, adesso l’imbarcazione era ben visibile.
Riprovai, usando anche il mignolo per sopperire. Con un grugnito tesi l’arco e puntai alla schiena della guardia ferita, che stava prendendo la mira verso la spiaggia. Mi tremavano le braccia per il dolore. Il bersaglio era a circa venti-venticinque metri. Trattenni il respiro e tesi la corda fino al mento. Uno schiocco e la freccia partì, grazie alla lussazione del mignolo. Mi buttai a terra col dolore come compagno. La freccia colpì l’uomo su una coscia e per la sorpresa gli partirono alcuni colpi.
Questo allertò quelli del gommone che risposero al fuoco con diverse armi automatiche.
Dopo circa venti secondi che durarono come venti ore, il domatore corse verso di me, tenendosi una spalla.
Mi vide, a pancia in su, con la mano offesa in grembo.
Mi sferrò un calcio su un fianco e quindi cadde a faccia in giù, raggiunto da un colpo.
Subito dopo arrivò Raj, che constatò il decesso del nemico.
Quindi si rivolse a me: Signor Massimo?
Feci cenno di sì con la testa prima di svenire.


MAX


[1] Vaffanculo! in rumeno

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