venerdì 28 gennaio 2011

Take no prisoners



23 Gennaio 2016

Da qualche giorno sono in quarantena sulla Eclisse, sono confinato a prua e posso avere pochi contatti col resto del personale. Con me ci sono altre dieci persone: i quattro della compagnia dei Cavalieri di San Giorgio ed altri contractors, uomini e donne, recuperati sulla costa tirrenica, tutti ex militari o simili, non parlano molto.
Come avete appreso dal blog del Tenente Benuzzi,  alcuni giorni fa i ragazzi della Stone Cold hanno effettuato la ricognizione alla Maddalena, li ho incontrati subito dopo il raid, nel corridoio davanti alla mia cabina, gli ho chiesto come era andata e Raj mi ha risposto: Bene.
Un’ unica parola, piatta come il piano di un biliardo. Gli altri mi hanno fatto un sorriso di circostanza e si sono chiusi nei loro alloggi, per togliersi zaini, giubbetti e attrezzature varie.
Nel piccolo corridoio è rimasto solo un odore di bruciaticcio, come quando mia madre strinava le penne al pollo, prima di cucinarlo.
Penso che stamani i ragazzi abbiano fatto più o meno la stessa cosa, con ciò che restava della nostra ex classe (non)dirigente.
Il morale non è proprio al massimo. Di solito scambio due parole con Rossano, il cuoco di bordo, che mi porta da mangiare tre volte al giorno (che lusso!). Mi ha confermato come in molti sperassero che esistesse ancora un governo, chi perché, nonostante tutto, ci credeva ancora e chi perché voleva fargliela pagare, come il sottoscritto. Anche se penso che Angelo però non ce lo avrebbe permesso.
Fatto sta che siamo tutti rimasti a metà del guado: né completamente felici, né completamente soddisfatti.
Ma comunque vivi, a dispetto di tutto.
La mano sta guarendo anche se mi manda ogni tanto delle belle fitte. In ogni modo la sinistra è ancora inutilizzabile, oggi ho tolto la steccatura alle dita lussate, ma ancora non le muovo bene. Le costole stanno bene, anche se non appena mi tocco la zona, salto sul materasso.
In questi dieci giorni di convalescenza ho pensato molto, come non mi capitava da tempo.
Ho pensato a tutte le persone care che ho perso: Luisa, la mia famiglia, gli amici e i colleghi. Ma anche alle persone della quotidianità: il mio benzinaio, il giornalaio sotto casa, il tipo ritardato che, in paese, scroccava sigarette a tutti, l’impiegata delle poste cotonata e sempre depressa. Di molte di loro purtroppo conoscevo la fine che avevano fatto, mentre delle altre me ne immaginavo di altrettanto atroci. Preferivo pensarle morte che nutrire speranza.
La poca che mi è rimasta la voglio investire in questa mia nuova, strana famiglia.
Siamo pazzi, in fondo.
Mentre tutto il mondo affoga nella Gialla, noi ci navighiamo attraverso, lasciando andare a fondo tutto il materiale di scarto, come in una latrina globale. Mentre tutti pensano solo a sé stessi, come in fondo facevano anche molto prima della pandemia, noi pensiamo al futuro, alla prossima generazione, che erediterà questa penisola così malconcia.
Tra un mese finirà la quarantena, ma penso che tra quattro o cinque giorni sarò di nuovo in grado di rendermi utile per la causa. Sulla Eclisse fervono i preparativi prima di far rotta per Caprera: chi conta le munizioni, chi smonta fucili, armi anticarro, pulisce mitragliatrici e altre diavolerie atte ad offendere. Ma non si prepara solo la guerra, i bambini fanno scuola tutte le mattine dalle 9 alle 12. Il Sabato e Domenica, invece, riposo.
Prima della Gialla ero un educatore, laureato sul finire del 2011, quando ancora la Gialla pensavamo che fosse l’ennesima aviaria-suina-equina-bovina etc etc
Penso di esserlo ancora, un educatore e vedendo, dopo tanti anni, dei ragazzini che giocano a campana sotto all’oblò della mia cabina, sento di poterlo fare di nuovo. Dovrò sostenerli nel diventare persone capaci di stare al mondo, ciascuno seguendo la propria strada, capaci di sopravvivere, di difendersi dai gialli e da tutti gli squali che si contendono i brandelli dell’Italia.
Vivranno per un’idea e la difenderanno con le armi, se necessario.
Bene, farò richiesta ufficiale per essere assegnato alla scuola e se la maggioranza lo vorrà, tornerò a fare il mio lavoro.
Ma prima mi aspetta un’ultima battuta di caccia al Giallo.
A presto.

MAX

domenica 16 gennaio 2011

Omaha Beach



15 Gennaio 2016 - Mattino

Stamani mi sono svegliato ed ero in un letto. Un letto vero, con lenzuola pulite, coperte e tutto il resto.
In realtà è poco più di una brandina, ma per me la Kobayashi Maru è la Reggia di Caserta.
Provo a muovermi.
Una fitta sul fianco destro, poco sotto l’ascella, mi blocca il respiro.
Devo avere alcune costole rotte, infatti il dolore è intermittente, tra un respiro e l’altro. Rimango a pancia in su, osservandomi la mano sinistra: il dito medio e il mignolo sono steccati insieme con del nastro isolante nero, mentre il palmo è fasciato da una garza, leggermente arrossata.
La pallottola è entrata e uscita dal palmo senza danneggiare i tendini.
Così ha sentenziato Raj, il capo squadra della Stone Cold Company.
Non è un vero dottore, ma ne ha viste parecchie di ferite, sui campi di battaglia.
E’ indiano, parla un perfetto italiano, educato all’inglese, ma capace di squartarti con la stessa naturalezza con la quale imburrerebbe un toast.
Su quella spiaggia tre giorni fa mi ha salvato la vita.
Stavo cercando di strusciare  via dal canneto, ma la mano mi faceva un male pazzesco, l’avevo avvolta nella sciarpa, ma così non potevo usare l’arco. Avevo tenuto le due frecce per un possibile corpo a corpo, anche se la guardia  mi avrebbe sicuramente sparato prima.
Una raffica di AK 47 tranciò gli steli a venti centimetri dalla mia testa.
Rimasi immobile dove mi trovavo, il piumino si era tirato su, scoprendomi la pancia, rimasta a contatto con la sabbia fradicia e gelata.
Un grido: sa te fut in gura!![1] O qualcosa del genere.
E un’altra breve raffica, stavolta più in basso.
Pensai che lo facesse apposta per stanarmi, voleva beccarmi come in quel vecchio videogioco con le papere, che andavano impallinate appena si alzavano in volo da un canneto.
Trattenni il respiro. Un ruzzolamerde si faceva strada verso il mio naso con la sua pallina tra le zampe posteriori. Mi ritrassi leggermente.
La Beretta mi si piantò nel fianco.
Il tipo si avvicinò di una decina di metri verso le dune e il canneto.
Mi venne in mente Steven Seagal.
Presi la pistola, la lanciai nella pozza marcia a due o tre metri da me e poi mi mossi dalla parte opposta.
La guardia corse verso lo stagno sparando in acqua una raffica che scaricò il caricatore ricurvo.
Adesso l’uomo era a pochi metri da me,  non era come nei film, la mossa alla Seagal non lo aveva depistato, anzi.
Vedevo tra i giunchi uno dei suoi scarponi. Impugnai una delle frecce e mi concentrai sul punto in cui finiva il cuoio e iniziava la stoffa mimetica.
La guardia ricaricò il kalashnikov e fece un altro passo verso di me.
Il domatore di gialli si stava avvicinando a sua volta, dopo aver demolito l’antenna della seconda pagoda.
Ero stranamente calmo, l’imminenza della morte cancellava ogni paura o tentennamento, chissà forse ero in botta di adrenalina, chissà.
Sentivo i loro respiri rochi.
Poi un altro rumore, in lontananza.
All’inizio pensai ad un insetto.
Alzai leggermente la testa e vidi la punta del fucile farsi strada tra le canne verdi.
Trattenni il fiato e migliorai la presa sull’asta della freccia, a ridosso della punta.
Il ronzio si fece più vicino: era intermezzato da dei tonfi ritmici.
Il domatore urlò qualcosa e la guardia si fermò, incerta.
Un motore.
Di una barca.
Ai tempi della Gialla.
I miei due assalitori corsero a ripararsi dietro le pagode, legarono il giallo all’anello di una base per ombrelloni in cemento e attesero.
Se erano quelli della Stone Cold, dovevano essere su un gommone e se quei due gli sparavano con gli AK addio rendez vous.
Recuperai l’arco, liberai la mano dalla sciarpa zuppa di sangue e incoccai la freccia. Mi misi in ginocchio, sperando che una raffica non mi scantucciasse la testa, che spuntava sopra la vegetazione dell’acquitrino. Tesi l’arco ma sentii come un ferro rovente che dalla mano, risalendo lentamente tutto il braccio sinistro, mi entrava dentro al torace. Presi un respiro profondo e riprovai: non riuscivo a tenere la corda con l’indice e il medio. Il rumore del gommone si avvicinava ancora di più, adesso l’imbarcazione era ben visibile.
Riprovai, usando anche il mignolo per sopperire. Con un grugnito tesi l’arco e puntai alla schiena della guardia ferita, che stava prendendo la mira verso la spiaggia. Mi tremavano le braccia per il dolore. Il bersaglio era a circa venti-venticinque metri. Trattenni il respiro e tesi la corda fino al mento. Uno schiocco e la freccia partì, grazie alla lussazione del mignolo. Mi buttai a terra col dolore come compagno. La freccia colpì l’uomo su una coscia e per la sorpresa gli partirono alcuni colpi.
Questo allertò quelli del gommone che risposero al fuoco con diverse armi automatiche.
Dopo circa venti secondi che durarono come venti ore, il domatore corse verso di me, tenendosi una spalla.
Mi vide, a pancia in su, con la mano offesa in grembo.
Mi sferrò un calcio su un fianco e quindi cadde a faccia in giù, raggiunto da un colpo.
Subito dopo arrivò Raj, che constatò il decesso del nemico.
Quindi si rivolse a me: Signor Massimo?
Feci cenno di sì con la testa prima di svenire.


MAX


[1] Vaffanculo! in rumeno

venerdì 14 gennaio 2011

Rendez vous





12 Gennaio 2016 – poche ore all’alba

Mi hanno risposto!
Mi immagino che Angelo (nome non sarà mai tanto appropriato) e i suoi a quest’ora stiano attraversando la manciata di miglia marine che li separano dal mio rifugio, sballottati dalle onde, gli occhi a fessura per sorvegliare la costa ormai morta.
Per festeggiare mi sono mangiato una barretta ai cereali, che sembrava cartongesso ripieno di sabbia e miele. Di tanto in tanto salgo su una pila di sedie per osservare fuori dal buco sul tetto.
Ancora buio pesto. Il rifrangersi delle onde mi ha tenuto sveglio, quello e il fatto che la notte tornata selvaggia è piena di rumori. Non sono i mugolii o i latrati catarrosi dei gialli, che sono diventati, negli ultimi anni, il suono familiare della mia sveglia. Fruscii, un cane che abbaia lontano, il grido gelido di una civetta, ogni tanto sento il rumore ritmico, rapido dei picchi.
Mi divoro le unghie e le pellicine delle dita fino a farle pizzicare e sanguinare, meglio smettere non vorrei che attirassero degli infetti. Mi accorgo solo ora che non  ne ho visto ne udito alcuno da ieri mattina, sulla strada.
Rumore, un attimo
Non ci credo. Ho socchiuso la porta e per un attimo la mia torcia ricaricabile ha illuminato una figura pelosa, che scavava acquattata tra gli arbusti a ridosso della pagoda sommersa dalla sabbia. Con la mano destra cercavo di arraffare la mia sbarra di metallo, mentre la sinistra inquadrava due zanne porcine che si dileguavano spaventate verso le dune.
Ricordavo che la zona era abitata dai cinghiali, perché circa venti anni fa una mia amica ne investì uno al ritorno da un falò, organizzato per la fine del liceo.
Senza saperlo ho trovato il miglior posto dove aspettare i miei salvatori: se ci sono i cinghiali non ci sono loro, o almeno così ho letto in uno dei blog di altri sopravvissuti.
Comincia ad albeggiare, intravedo la battigia alla mia destra e le dune ricoperte di vegetazione a sinistra.
Silenzio, c’è un gran silenzio ora.
Poi uno schiocco.
Sento del ghiaccio incastrato nelle vertebre del collo.
E’ uno sparo. Seguito da altri due.
Dal punto di osservazione non vedo niente. Un paio di cinghiali feriti sono fuggiti furiosi verso le onde per poi correre a sud, verso la foce del Serchio.
Questo è male.
Eccoli, i grugniti tristemente familiari.
Appoggio in piedi alla parete quattro frecce e l’arco, poi impugno l’asta.
Un tizio alto, in mimetica, elmetto e passamontagna nero, si fa condurre da due gialli nudi e magri, con al collo un collare di cuoio, ciascuno agganciato a delle aste di metallo impugnate dall’uomo. Gli infetti sbavano e fanno fare dei balzi al loro custode che stenta a trattenerli. Dietro di lui altri due soldati con AK 47 spianati.
Razziatori!
Hanno un simbolo d’argento sugli elmetti.
Forse quelli della Whyte.
Che cretino! Qualcuno ha seguito i miei contatti con Angelo e ora cerca vendetta,vista la botta che gli ha dato la Stone Cold l’altro giorno. E io gli ho anche fornito le coordinate.
Spedisco un messaggio e li avverto, spero di essere in tempo.
Restate vivi, io ci provo adesso.

MAX



12 Gennaio 2016 – l’alba

Abbastanza vivo per scrivere.
Bilancio: due feriti lievi (uno sono io) e un futuro giallo steso a rantolare nella sabbia rossa. Il domatore è sano come un pesce ma ha perso uno dei cagnolini.
Ecco, ora ha perso anche una delle guardie, pietosamente finita dall’altra, che si tiene la spalla sinistra, dalla quale spuntano le piume di una freccia.
La sbarra di metallo giace a terra, ammaccata, vicino alla porta del mio ultimo rifugio. Ho ancora l’arco, due frecce e forse quattro bersagli da colpire prima che loro facciano lo stesso con me. In tasca ho la beretta scarica, servirà per il mio bluff da ultima spiaggia (mi sembra il posto giusto per la metafora).
Sono sdraiato in un canneto vicino ad una pozza di acqua marcia, che divide in due l’ultima fila di dune prima della spiaggia e si ricongiunge con un rigagnolo direttamente al mare grigio. Non penso mi abbiano visto, erano troppo indaffarati a difendersi dal giallo liberatosi grazie a me: un colpo vibrato con la pertica di metallo proprio sulla mano destra del domatore.
Hanno notato l’altra pagoda, il domatore vi si dirige sbraitando in una lingua balcanica, preceduto dal giallo ammaestrato, si avvicina e prende di mira con una pistola l’antenna wireless.
L’altro soldato viene verso le dune, sta parlando ad una radio.
Vi salut


martedì 11 gennaio 2011

Leaving the nest



11 Gennaio 2016

 
Dunque me ne sono andato davvero.
Dopo quasi due anni, compresi gli ultimi tre mesi in completa solitudine.
Adesso sono in una specie di pagoda in riva al mare, una volta era un bar gelateria, attrezzato anche per aperitivi e cene a base di pesce. La struttura è fatta di tronchi di legno, montati su una pedana in cemento. La sabbia la ricopriva quasi del tutto, visto che ora i trattori che la spianavano giacciono, come carcasse di balene, sulla battigia.
Ho dovuto scavare nella sabbia gelata con le mani, strappandomi via un’unghia dal dito medio, per farmi un varco e raggiungere la porta. Dentro solo altra sabbia, alcuni tavoli e sedie di plastica bianca. In effetti non è un gran che, ma è solido, i portelloni che si aprono sui lati della pagoda sono ben chiusi e un piccolo foro nel tetto  mi consente di tenere d’occhio intorno.
Questo rifugio inoltre ha un altro vantaggio, ha una minima copertura wireless, visto che l’altra pagoda sul lato opposto della rotonda panoramica, prima fungeva da internet point. Ecco laggiù l’antenna, unica vestigia tecnologica ancora funzionante, che si erge un metro sopra la duna che nasconde la costruzione.
Stamani all’alba ho lasciato il magazzino del supermercato, dopo alcuni giorni di seghe mentali varie e titubanze dell’ultimo minuto.
Sono uscito dalla porta del cortile sul retro: non c’era nessuno in vista, sono salito sul tetto ed ho scrutato i dintorni.
La rete intorno al cortile era sgombra, a parte i cadaveri decomposti dell’estate precedente.
Accanto al magazzino dell’Eurospin c’era una pizzeria a due piani con terrazza: attorno ad un tavolo c’era un ragazzo, pensai fosse morto, ma un’ ispezione più accurata, col telescopio della prima comunione, rivelò un movimento della mano: la portava alla bocca chiusa a pugno, poi la poggiava sul tavolo e quindi ripeteva l’operazione.
Sembrava mimare una persona che mangiava, forse ricordi della vita passata, sopravvissuti al prione.
Guardai meglio.
Il Konus mi scivolò di mano.
Pietro.
Il mio amico d’infanzia.
Un paio d’anni prima dell’epidemia si era stabilito lì vicino: la pizzeria era spesso la sua soluzione preferita per la cena; ci ero stato a mangiare anche io con Luisa.
Luisa era la mia ragazza, nell’estate del ’12 ha cominciato a non avere più fame, era sempre arrabbiata e divorata dall’ansia, all’inizio l’ho presa in giro, perché era sempre stata un po’ ipocondriaca, ma non quella volta, purtroppo. L’ultima volta che l’ho vista era legata sul lettino, nel reparto malattie infettive del Santa Chiara: si dibatteva, urlava e fili di bava le colavano sul collo giallo.
I ricordi  risalirono con violenza, causandomi una fitta nello stomaco, mentre le lacrime si facevano strada sulla barba scompigliata.
Un grugnito sommesso mi arrivò dal basso.
Strinsi la mia arma, un’asta di metallo, con entrambe le mani, accovacciato sul tetto incatramato.
Il rumore si ripeté, una decina di metri più a destra del primo punto.
Mi avvicinai al piccolo parapetto in muratura e mi sporsi sotto.
C’era un uomo vestito da vigile urbano, con la divisa estiva: camicia a maniche corte azzurra, calzoni neri e cinturone bianco.
Il cranio, calvo, portava i segni di almeno due, tre morsi purulenti.
In vita era stato il più bastardo tra i vigili del paese e ora, da morto, se ne stava di pattuglia sulla strada provinciale che io avrei dovuto percorrere per il rendez vous con la Stone Cold Company.
Io l’avrei percorsa nella direzione opposta, ma il tipo mi avrebbe sicuramente visto e magari avrebbe attirato l’attenzione di altri infetti.
Ho controllato ancora la strada e le vicinanze, cercando di accantonare per un po’ il passato: sull’asfalto c’erano alcuni rottami anneriti di auto, detriti e sacchetti della spazzatura, ma nessun giallo a parte Rambo, il super vigile. Davanti a me c’era la farmacia che, privata di ogni cosa utile, adesso ospitava il quartier generale dei gialli assedianti il magazzino in cui mi trovavo. Non vidi nessun movimento nella penombra, oltre la vetrina sfondata da una panda verde. Non potevo uscire dall’ingresso principale, magari era ancora presidiato dopo la sortita dell’altro giorno e poi dava proprio davanti alla farmacia.
Decisi di passare dal cancello del cortile sul retro, sperando che non fosse sorvegliato.
Dovevo contare solo sulle mie gambe: le auto dei miei ex compagni di sopravvivenza erano a secco dalla scorsa primavera ed i distributori nelle vicinanze erano nelle stesse condizioni dai primi mesi del ’14.
Tornai giù e prima di uscire controllai ancora lo zaino: il cibo (bottiglia di minerale da 1.5 litri, due scatolette di ciappi da 400 grammi, una barretta ai cereali), sacco a pelo, netbook, cartina, torcia ricaribile, coltellino svizzero, Beretta scarica di Greta e termometro da parete.
C’era tutto.
Misi in spalla lo zaino e raccolsi anche una faretra in similpelle nera con 5 frecce.
L’arco mongolo mi aspettava accanto alla porta, insieme alla mountain bike. Non pensai a quanto dovevo essere ridicolo, con tutta la bardatura da motocross e il resto.
Sbuffando nuvole di vapore nell’aria gelida, detti le prime pedalate barcollanti costeggiando il cortile interno e immettendomi sulla provinciale.
La paura cercava di rallentarmi le gambe, ma ad ogni metro mi sentivo più spavaldo: la bici era silenziosa e Rambo non si era ancora accorto di niente.
Strano.
Non so perché l’ho fatto…no, cioè lo so, Rambo mi è sempre stato sul culo.
Rallentai fino a fermarmi, detti un’occhiata intorno a me per sincerarmi che non ci fosse nessuno e quindi incoccai la freccia presa dalla faretra, legata alla canna della bici.
Tirai la corda con il gomito ben in alto, fino a sfiorare l’orecchio destro, trattenni il respiro nell’ultimo centimetro di sforzo e quindi liberai la freccia che centrò la pelata del giallo e la percorse per metà lunghezza.
Avrei pagato per vedere la sua faccia di cazzo con una freccia in mezzo agli occhi, ma dovevo andare, cominciavo a sentire rumori dalle case abbandonate a lato della provinciale.
Percorsi la provinciale che una volta percorrevo spesso per andare a Pisa, scansando un paio di defender dei Carabinieri rovesciati su un fianco. Non c’era niente di vivo intorno.
Dopo alcune centinaia di metri tra campi incolti arrivai ad una rotonda.
C’era una donna infetta nel mezzo dell’isola pedonale: osservava attentamente un cartello pubblicitario del circo, ingiallito dal sole e strappicchiato dal vento. Mi misi in piedi e spinsi forte sui pedali per oltrepassare velocemente la rotonda.
La vecchia bici però cigolava e la gialla si voltò ululando proprio mentre le passavo accanto: allungò un braccio scorticato ma l’unico risultato fu di cadere a faccia in giù. Io ero già oltre svoltai e raggiunsi l’Aurelia, in prossimità di Migliarino mi accorsi di un aspetto che non avevo considerato: dovevo oltrepassare il Serchio ma l’unico ponte era stato fatto saltare dal genio come misura anti pandemia.
Ero fradicio sotto la tenuta da motocross, sia per lo sforzo di pedalare dopo mesi di quasi totale inattività, sia per il panico che iniziava a soffocarmi.
Mi voltai immaginandomi gia attorniato dai cari infetti: non c’era nessuno e per fortuna solo in quel momento notai che il ponte ferroviario, parallelo a quello stradale, non aveva subito la stessa sorte.
Scesi di sella e mi avventurai fuori dalla sede stradale, tra gli arbusti più alti di me, tenendo la bici sulla mia sinistra e l’asta con la mano destra.
Risalii la massicciata, cercando di non smuovere troppo i sassi. I binari erano nascosti dalle erbacce, ma riuscii a passare il Serchio senza grossi problemi.
Scesi dalla ferrovia e imboccai il viale dei Pini, che, rigogliosi, avevano spaccato l’asfalto in alcuni punti. Accelerai in un paio di tratti in cui vidi movimenti pericolosi tra giardini infestati e carcasse di autobus. Dovevano essere passate un paio di ore, prima della Gialla ci avrei messo lo stesso tempo a piedi, ma ora il mondo non era più lo stesso e neanche io del resto.
Insomma eccomi qui, in riva al mare, ad aspettare la Stone Cold Company.
Ecco le mie coordinate:

Latitudine : 43.794080( 43° 47' 38.688" N ) Longitudine: 10.267070( 10° 16' 1.452" E )

Vi aspetto, nel momento in cui scrivo questa riga dovrebbe essere mezzogiorno, se il netbook non mente.
Ho autonomia di cibo per altre 48 ore, poi dovrò darmi alla pesca a mani nude.
Come dicevo una volta con gli SMS: fatemi sapere.

MAX

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